La prima FIAMMA non si scorda mai

Il mio primo incontro con la fotografia


Ho impugnato la mia prima macchina fotografica quando ancora ero bambino. Era la macchina fotografica di mio padre la quale, squadrata ed austera da mettere soggezione a chiunque, veniva tirata fuori dal cassettone solo in rarissime occasioni, quando si presentava un evento familiare di rilevo e, comunque, esclusivamente in estate giacché le fotografie “venivano” solo se c’era moltissima luce solare. Quella macchina fotografica, che ancora oggi conservo gelosamente, si chiamava Fiammetta.

Massimo Vespignani - Faenza - Fotografia
La Fiammetta col suo caratteristico frontale decorato con un motivo geometrico e una fiamma stilizzata.

Era un apparecchio tipo box, in lamierino metallico, che forniva negativi 4,5 x 6 cm su pellicola in rullo tipo 120.

Si trattava di una macchina fotografica di fabbricazione italiana, costruita a Firenze dall'industria F.I.A.M.M.A. (Fabbrica Italiana Apparecchi Macchine Materiali Accessori) con sede nel capoluogo toscano in via Gustavo Mariani 62-64. Prodotta a partire dal 1933, la Fiammetta restò in produzione solo per breve tempo. Gli apparecchi fotografici costruiti dalla F.I.A.M.M.A. godevano allora di ottima fama tanto che su Il Progresso Fotografico dell’epoca erano pubblicizzati con toni altisonanti.

 

Massimo Vespignani - Faenza - Fotografia
Inserzione pubblicitaria su "Il Progresso fotografico".

La Fiammetta era una fotocamera di tipo amatoriale, senza troppe pretese. L’obiettivo composto da due sole lenti, la messa a fuoco fissa ed il tempo di scatto altrettanto fisso potevano farla sembrare addirittura spartana ma, analizzandola meglio, si poteva scorgere qualche caratteristica non comune. Offriva la possibilità di regolare il diaframma, il quale non era altro che una barretta metallica scorrevole sulla quale erano presenti tre fori circolari di diverso diametro. Facendo scorrere la barretta fra le due lenti era possibile variare la quantità di luce che andava a colpire la pellicola. Consentiva l’impostazione della posa T per lunghe esposizioni.

Era dotata di foro filettato per il cavo flessibile o pneumatico, di un mirino sportivo estraibile, di due fori filettati per il fissaggio al cavalletto, di due mirini e – cosa rara su un apparecchio amatoriale – di una leva che permetteva di inserire fra le lenti un filtro fotografico presumibilmente di colore giallo, a giudicare dalla lettera G incisa sulla leva di comando.

 

Il filtro si presenta oggi completamente incolore ma ciò non lascia dubbi sul fatto che si trattasse di un filtro colorato e non di un elemento ottico aggiuntivo, dato che la sua superficie è perfettamente piana su ambo i lati e il suo inserimento fra le lenti non genera variazioni alla focale dell’obiettivo.

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L'apparecchio aperto. Si nota il vano porta rullo e le due finestrelle rosse per il controllo numerico dell'avanzamento della pellicola.
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Il mirino a traguardo estraibile ed il relativo foro di collimazione.
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I due mirini a specchio per inquadrature orizzontali e verticali.

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Il frontale aperto con al centro l'otturatore a movimento alternato. Sulla destra un filtro inseribile tramite leva.

Nella mia mente di bambino la comparsa di quel misterioso apparecchio nelle mani di mio padre suscitava ogni volta un indescrivibile tumulto di emozioni. Il solo fatto che, premendo un pulsante, si riuscisse ad ottenere un’immagine, aveva il sapore della magia.

L’apparecchio era equipaggiato con ben due mirini, uno per le inquadrature orizzontali, l’altro per quelle verticali. I mirini a specchio rimandavano l’immagine su due minuscoli vetri smerigliati sui quali - va da sé - non si vedeva quasi nulla. Non va dimenticato che durante la mia infanzia i televisori non esistevano ancora e non mi era mai capitato di vedere un’immagine in movimento proiettata su un vetro smerigliato e, per di più, con i lati destro e sinistro invertiti. Quelle immagini sul vetro, per me bambino, erano frutto di un prodigio ed io non smettevo più di rigirarmi fra le mani quella scatoletta nera sulla quale si potevano guardare le “figurine che si muovono”.

 

Nessuno in casa mia sapeva usare quel marchingegno. Ci si limitava a premere il pulsante di scatto e a fare affidamento sulla fortuna. Le regole da seguire erano soltanto due: bisognava che il sole fosse sempre alle spalle di chi scattava la fotografia e non ci si doveva scordare di avanzare la pellicola dopo ogni scatto. Infatti le fotografie che si ottenevano, nel bene o nel male, erano lo specchio di quelle due regole. La prima regola - l'abbondanza di luce solare - veniva osservata scrupolosamente, tanto che le persone ritratte comparivano sempre con una smorfia di sofferenza e con gli occhi semichiusi sotto un sole accecante. La seconda regola invece - l'avanzamento della pellicola - veniva spesso dimenticata perché più difficile da ricordare e, di conseguenza, le doppie esposizioni erano frequentissime e i risultati surreali.

Massimo Vespignani - Faenza - Fotografia
Fotografia scattata con la Fiammetta e tecnica tipica di quell'epoca: sole alle spalle del fotografo e soggetto semiaccecato dai raggi solari. Il bambino ritratto, nonostante l'abito di foggia femminile ed il boccolo sulla fronte, sono io.